“LUPO” – con Mario Opinato e Giovanni Arezzo, per la regia di Gugliermo Ferro.

LUPO” – Teatro Mobile di Catania – Mario Opinato e Giovanni Arezzo, per la regia di Gugliermo Ferro.
Mia recensione dello spettacolo, su testo teatrale in dialetto catanese di Carmelo Vassallo.

Ho assistito ieri pomeriggio a “LUPO” (tratto dal testo di Carmelo Vassallo), messo in scena da Teatro Mobile di Catania, interpretato dagli eccellentissimi e straordinari attori Mario Opinato e Giovanni Arezzo, per la regia di Guglielmo Ferro.
Uno spettacolo teatrale straordinario, senza ornamenti e fronzoli scenografici: un angolo di un quartiere povero di Catania, un balcone, una parete di panni stesi e poi solo cruda esistenza che rimanda subito ai sentimenti e alle antinomie di chi ha vissuto quelle stesse scene, provato gli stessi sensi di solitudine e versato le stesse lacrime nei quartieri poveri della Catania degli anni ’60/’70.
Una ricostruzione precisa degli aspetti profondi della condizione umana nella quale si esprime la cagionevolezza e l’imbarazzo dell’amore diverso; l’innocenza che si contrappone alla malizia e alla tenaglia culturale prepotente che frantuma la vita e attraversa in modo violento la carne e lo spirito di molti di noi.
Una storia tragica, ma anche colma di tanta poesia, che narra di affetti profondi dove a considerare “malati” i comportamenti dei personaggi che la popolano non è altro che il diniego di una società catanese ancora incapace di guardare al cuore dell’uomo con la sacralità dovuta.
Lui, Lupo, un tipo tenero nella sua irruenza caratteriale; l’altro, Cocimu, un adolescente confuso, smarrito, che cerca “cunottu” (conforto) e che è costretto (come molti altri attorno a lui) a subire l’ignoranza prevaricatrice e aggressiva di compagni di strada, fantocci mascherati da supponenza maschile.
In Lupo, fiero della sua fisicità e forza, ho rivisto la scelta coraggiosa di alcuni personaggi della mia infanzia che privilegiavano al branco la tutela dei deboli contro la spocchia tracotante di supponenti “capi rais”.
L’amicizia di Lupo con Cocimu non è dubbia; egli ama in modo innocente e fraterno il giovane, e lo ama così com’è: un ragazzo incerto che è vittima della claustrofobia dei sentimenti, che è stretto al pugno di una madre assillante che lo costringe ad una vita segregata e oscura. Sceglie pertanto, alimentato dalla innocenza dei grandi, di proteggerlo da tutto e da tutti.
Invece Cocimu scopre qualcosa di “insolito” in lui, di sensi che avvampano quando è a “contatto” con Lupo, di qualcosa che altri considerano un “disordine” e che egli non è capace di accettare o di manifestare se non attraverso quel suo strano abbigliamento che bene lo identifica con gli improperi che riceve continuamente quando si sente dire: “fimminedda”.
E come accade spesso nell’amore confuso uccide ciò che lui ama: prima avvelena la madre e poi ammazza Lupo a coltellate; ma nel pasticcio dei suoi pensieri sente quest’ultimo ogni giorno vivo, sotto il suo balcone prigione, mentre lo chiama la notte per scorrazzare con lui e ascoltare i ricordi del loro peregrinare. E Cocimu ce lo racconta quasi fosse una tragedia shakespereana, senza mai risparmiarci gli aspetti selvaggi e crudeli del suo disagio, senza mai nascondere la pietà che sorge dal suo profondo e la depressione che lo annichilisce.
Insomma “Lupo” è un testo che se ben interpretato, come hanno fatto Mario Opinato e Giovanni Arezzo, e ben diretto come ha fatto Guglielmo Ferro di Teatro Mobile di Catania, diventa opera d’arte dei sentimenti e delle antinomie dell’intrinseco e imperscrutabile carattere dell’uomo.

Alessio Patti